Imago Ricerche di psicoanalisi applicata

JAMES HILLMAN
Maestro e traditore della psicoanalisi



Silvia Vegetti Finzi

Penso che il termine "tradire" sia qui usato nel senso etimologico della parola che deriva dal latino tradere: consegnare, trasmettere, lasciare in consegna, in eredità. Prossimo, in questo senso, al termine "tradizione" ma anche a "traduzione" nella misura in cui, trasportando le parole da una lingua all'altra, si provocano inevitabili smarrimenti di potenziale semantico.
Il senso negativo di tradire un segreto è soprattutto di ascendenza cristiana e rinvia al "bacio di Giuda", gesto tragico che, esprimendo menzogna ed inganno verso il Maestro, precipita il discepolo nel peccato, nella colpa, nel castigo.
In una prospettiva laica, il vocabolo perde d'intensità sino a divenire, come sostiene Gabriella Turnaturi in Tradimenti (Feltrinelli), una forma di "imprevedibilità nelle relazioni umane". Ogni forma di comunicazione ne contiene il rischio. Come dice Lacan: comunicare è equivocare, ed è proprio scivolando sull'equivoco che il discorso si sottrae alla ripetizione per imboccare una nuova, imprevista direzione. Ma, se non si è previamente stabilito un patto di fedeltà, si tratta di fraintendimenti più che di tradimenti. Il tradimento è tale se è sentito da chi lo subisce come un atto che infrange un rapporto reciproco.
Scrive in proposito Conrad: "Tradire. Parola grossa. Che significa tradimento? Di un uomo si dice che ha tradito il suo paese, gli amici, l'innamorata. Prima deve esistere un vincolo morale. L'unica cosa che l'uomo può tradire è la propria coscienza".
Lei non ha mai tradito la propria coscienza e, precisamente per questo, è divenuto infedele a se stesso: alla Sua storia, alla Sua posizione, al Suo ruolo, alla parte di sé esposta al riconoscimento dell'altro.
Rispondere alla domanda del perché si tradisce è pressoché impossibile. Troppa complessità e ambiguità sono presenti in ogni forma di interazione e attraversano tutte le relazioni; troppa complessità e ambiguità abitano ciascun individuo. Si tradisce per cento passioni e per cento ragioni.
Hillman ha tradito la psicoanalisi? Si chiedevano gli astanti un po' smarriti per l'imprevedibilità dell'evento.
Ritengo di sì ma per farlo ha dovuto condividere qualche cosa, collocarsi in una cornice comune, dire "noi". Solo così, dall'appartenenza nasce la possibilità di tradimento, separazione, rottura.
Il "noi" di Hillman, credo che Lei sarà d'accordo, è stata la psicoanalisi e, in particolare, il pensiero di Jung.
Il Suo tradimento è inevitabile. Lei non tradisce solo Freud, Jung, la psicoanalisi e la psicologia del profondo ma tradisce anche se stesso; né avrebbe potuto fare altrimenti perché il Suo è un pensiero in movimento, spostamento, transizione, velocità, depistaggio; il Suo procedere risponde al motto della sorpresa: non farsi mai trovare là dove si è attesi.
In consonanza con la qualità della "leggerezza", attribuita da Italo Calvino nelle Lezioni americane, al pensiero moderno, nulla le è più estraneo della pesantezza, del sostare per circoscrivere, del registrare dogmaticamente la verità onde stabilire una ortodossia in nome della quale lanciare scomuniche o anatemi.
Non ha senso parlare di una Scuola hillmaniana, nel senso istituzionale del termine, perché Lei è sempre più in là, già fuori dalla Sua stessa scrittura che, rispetto al pensiero, è invece statica, definitiva, perenne.
Il Suo pensiero è giovane, vivace, impertinente, un Puer Aeternus, che non sa essere fedele a nulla, neppure alla sua immagine pubblica, perché la sua dimensione è il gioco, lo scherzo impertinente, lo sberleffo, il piacere di ridere e di irridere. Ma anche il costante rapporto con la verità che non si lascia cogliere se non in fugaci apparizioni, in improvvise illuminazioni, in passi felici di danza. Indovinatissimo appare al riguardo, il titolo che Silvia Ronchey ha apposto alla sua ultima conversazione con Lei: "Il piacere di pensare". Un piacere estetico che attribuisce al bello un valore morale, dal momento che ciò che è bello non potrà mai essere banale o volgare.
Volgendosi indietro, alla ricognizione del proprio pensiero, al mondo immaginario e concettuale che Lei stesso ha evocato, si permette di dichiarare: non ti riconosco più, non mi appartieni. D'ora in poi la mia filiazione è un'altra. Così facendo trasforma il movimento in tradimento.
Freud non può tradire perché non si smentisce mai: procede in modo tale che le nuove ipotesi si sovrappongano alle precedenti sino a produrre stratificazioni archeologiche. Hilman invece, che ha una vocazione nomadica, quando ha esaurito l'esplorazione del territorio circostante, stabilisce altrove la sua dimora, lasciando che la precedente sia invasa dai rovi.
In che senso Lei, Hillman, tradisce la psicoanalisi? Nel senso in cui l'amante tradisce l'amata per troppo amore.
Lei ama la psicoanalisi di un amore immenso, onnipotente, esigente, simile alla passione che lega la madre ebrea, la yidishe mame o anche la madre mediterranea, ai propri figli.
Madri che vorrebbero dare tutto alle proprie creature ma che, al tempo stesso, pretendono tutto da loro.
Lei affida alla psicoanalisi nientemeno che l'incarico di salvare il mondo. Una delle Sue opere si intitola infatti: "Cento anni di psicoanalisi e il mondo va sempre peggio".
Ma siamo sicuri che la psicoanalisi abbia il compito di prendere il posto di Dio: di sapere tutto, di potere tutto?
Freud le negava il valore di "visione del mondo", Weltanshauung, e Lacan, più sobriamente afferma: "la psicoanalisi non può dire tutto di tutto. E' la teoria di una esperienza di parola": un sapere che riflette sulla pratica clinica, sulla psico-analisi appunto, vale a dire sugli effetti di una relazione che si fonda sul dialogo.
Non un dialogo qualsiasi, ma quello che accade all'interno di uno scambio intenso di pensieri e di affetti chiamato transfert.
Hillman invece ha rotto gli ormeggi della teoria con la clinica, del pensiero concettuale con il lavoro terapeutico. Quel lavoro (Arbeit) che procede lentamente verso il passato, la prima infanzia, dove risiedono le scene primarie, le passioni originarie, i primi traumi.
Ma a Freud non interessa tanto la meta quanto il percorso: la ricostruzione o costruzione della storia del paziente, della sua biografia personale. Un itinerario retto dalla convinzione che le esperienze fondamentali, strutturali, si situano nella prima infanzia e che il passato inelaborato, non metabolizzato, torna coattivamente a ripresentarsi nel presente deformando l'interazione del soggetto con se stesso, con gli altri e col mondo. Al paziente che non sa darsi ragione del sintomo, che non comprende perché improvvisamente ha paura del vuoto o del chiuso, perché i suoi arti non rispondono ai comandi, perché la lingua si inceppa, perché i gesti si ripetono meccanicamente, infine al paziente che si chiede: chi sono io? Freud risponde: tu sei la tua storia. E Hillman?
Lei non si interroga tanto sulle nevrosi quanto sulle psicosi, sulla follia, la sragione, l'emergere fragoroso dell'inconscio sulla scena della coscienza. E si rifiuta di etichettarlo come malattia, perché lo considera un'apparizione del sacro, la comparsa di quelle verità ultime che la coscienza, incapsulata nell'Io, non è più capace di riconoscere e di accogliere. La psicoanalisi freudiana, secondo la Sua denuncia, ha voluto recintare l'inconscio, chiudere l'Es nell'Io - "Dov'era l'Es deve subentrare l'Io" (Introduzione alla Psicoanalisi, 1932) - ma così facendo ha incentivato il dominio, il controllo, lo sfruttamento delle risorse spirituali che sono tanto dell'uomo quanto del mondo. Vi è qui un'opposizione radicale all'impresa illuministica della psicoanalisi a favore della sua componente romantica. Ma, come nota Thomas Mann (La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno), il romanticismo di Freud è spogliato della sua veste mistica e trasformato in scienza naturale, seppur sublimata dall'incidenza della dimensione spirituale.
Lei mi sembra ritornare invece, almeno in un primo tempo, al romanticismo panteistico caro a Novalis.
Per Lei, panteisticamente, l'inconscio non è soltanto una delle tre istanze psichiche dell'uomo, quanto una dimensione di tutte le cose.
All'orizzonte vi sono le idee eterne, i modelli platonici, le forme originarie, archetipiche di tutto ciò che appare come esistente, ma che in realtà è soltanto copia di un altrove trascendente, ultraterreno, metafisico, immutabile, eterno. Di per sé irraggiungibile, quel mondo costituisce comunque il luogo e la garanzia della Verità e del Bene.
Elemento mediatore tra il vero mondo degli archetipi e il mero mondo delle cose è l'anima. L'anima è una delle tante forme archetipiche della psiche e, come tale, connette la vita e la morte, l'amore e l'odio, l'eternità e il tempo.
L'archetipo richiede un linguaggio che non sia astratto e concettuale ma, come il sogno, immaginale. Rispetto all'immaginazione, l'immaginale contiene il senso della creazione e della trasformazione. Le immagini espresse dagli archetipi hanno la loro descrizione nei miti. E i miti sono le narrazioni dell'anima.
Con un gesto di storicismo ardito, Lei recupera la mitologia olimpica, rivitalizzata nel Rinascimento, perché il politeismo Le sembra più idoneo a rappresentare la ricchezza e la varietà delle passioni umane, impoverite dalla sobria monarchia del monoteismo.
Ora, deposto il repertorio mitologico, chiuso il sipario del tragico (S. Vegetti Finzi, a cura di, Storia delle passioni, Laterza), le passioni parlano nella follia e, invece di essere ascoltate, vengono tradotte nella patologia e messe a tacere dalla terapia. Dobbiamo invece lasciare che l'anima ci parli, oltre che nella pazzia, nel sogno, nell'arte, nelle immagini mentali, senza tradurre immediatamente le sue figure in parole, concetti, spiegazioni o interpretazioni che ne catturano la verità vitale e virtuale giacché tutto non si può dire. Fin qui il Suo pensiero, caro Maestro, radicalizza la psicologia archetipica di Jung ma dal 1996, in Oltre l'umanesimo, tradisce se stesso e, oltrepassando l'assoluta contrapposizione tra archetipi e mondo, tra le idee e le cose, scende a valle là dove incontra l'Anima Mundi, un configurazione simbolica rinascimentale che Le permette di guadare dal trascendente all'immanente.
Da quel momento le forme ideali non si stagliano più nell'empireo e l'uomo non è più chiamato a guardare verso l'alto, in una prospettiva ascensionale, ma ad osservare ciò che lo circonda, lo accoglie, lo attraversa. Il suo compito è: "fare anima".
Al cammino verticale di Jung, si contrappone un percorso obliquo, lungo una linea trasversale che connette l'anima individuale alla Natura. Qui natura non è più intesa nel vago senso della nebulosa mistica, ma come complesso degli esseri viventi e anche non viventi nella misura in cui i manufatti dell'uomo, come le case, le macchine, le città, sono comunque una sua espressione. L'anima del mondo non si lascia cogliere nel tutto del sentimento oceanico ma si materializza in modo esemplare nel giardino, dove l'uomo ritrova la sua duplice composizione di corpo e anima, la sua doppia appartenenza alla sfera della natura e della cultura.
Da questo senso di compartecipazione, Lei ricava il compito morale di denunciare il degrado del mondo in cui viviamo: l'indifferenza, l'incuria, la pigrizia con cui assistiamo alla morte di tutto ciò che ci circonda. Vi è, nel Suo sguardo, una convergenza di estetica e di etica che L'autorizza a equiparare la bruttezza al male. L'errore di base, che provoca come conseguenza l'irresponsabilità collettiva, consiste nell'aver separato la forma dalla materia, il maschile dal femminile, l'anima dal corpo, l'individuo dal cosmo, senza considerare che sono parte inscindibile di tutto ciò che esiste.
Ora il Suo pensiero, così ridefinito, sideralmente lontano dal presupposto iniziale secondo cui il mondo delle cose non è che una copia del mondo delle idee, che l'esistenza è garantita dalla trascendenza.
Il senso e il valore insistono invece nel presente e ci comunicano, se sapremo vedere e ascoltare attraverso la percezione del corpo e la sensibilità dell'anima, il dolore dell'esistente e la felicità del potenziale. Il mondo appartiene costitutivamente all'esperienza umana e non si dà esistenza umana senza mondo (Mit-dasein). Finché c'è bellezza, sembra enunciare, c'è salvezza, c'è speranza.
Se questa nuova concezione tende a sollecitare una sensibilità ecologica, a superare la gerarchia che vuole l'Uomo al di sopra di tutti gli esseri e a reintrodurlo alla pari, vivente tra i viventi, se serve a mostrare il coinvolgimento di ciascuno con tutti, sia benvenuta. Ma allora si tratta di una filosofia della vita più che di una psicoanalisi.
L'analista, in quanto tale, coglie il mondo nel vissuto che emerge nel corso della terapia, nell'interazione tra due menti al lavoro. Il suo campo è centrato sulla relazione, ma poiché l'inconscio, come dice Freud, ha un ombelico che lo connette all'ignoto, il setting non è mai un claustrum, anche se si avvale della sospensione dell'agire a favore dell'ascoltare e del dire.
In conclusione, me lo lasci dire, Lei è psicoanalista a pieno titolo quando mette in questione la centralità della coscienza, quando condanna le terapie che intendono rafforzare l'Io proprio nel momento in cui è sin troppo forte l'autoaccentramento narcisistico, quando rifiuta la logica dell'adattamento e la pratica della patologizzazione senza interrogazione, quando invita ad usare l'arte per dialogare con l'inconscio.
In questo senso è un maestro che merita di essere conosciuto e utilizzato da tutti coloro che si interrogano su se stessi, sulle relazioni, sulla realtà, sulla storia. Ma esce dal perimetro della psicoanalisi quando intende diagnosticare e curare i mali del mondo attraverso la denuncia del male e l'affermazione del bene. A questo punto non si tratta più di un compito dell'analisi ma dell'umanità.
L'analista in quanto uomo può far propria questa missione, ma in quanto psicoterapeuta non può stendere il mondo sul lettino e rimanere all'ascolto delle sofferenze che esprime, perché questo travalica il suo sapere e il suo saper fare, quel patrimonio di competenze e di esperienze che ha raccolto nel corso di un secolo e che continuano ostinatamente a confrontarlo con i tre compiti impossibili dell'uomo: educare, curare, governare.
Freud ha avuto cura di sottolineare più i limiti che i poteri della psicoanalisi. Scrive infatti, a conclusione degli iniziali Studi sull'isteria (1892-95): - "Mi sono sentito spesso obiettare dai miei pazienti, quando promettevo loro aiuto e sollievo per mezzo della cura catartica: 'Ma se dice Lei stesso che il mio male si collega probabilmente alla mia situazione e al mio destino: a quelli Lei non può certo recare alcun mutamento. In qual maniera mi vuole allora aiutare?' Ho potuto loro rispondere: Non dubito affatto che dovrebbe essere più facile al destino che non a me eliminare la Sua sofferenza: ma Lei si convincerà che molto sarà guadagnato se si riuscirà a trasformare la Sua miseria isterica in una infelicità comune. Contro quest'ultima, Lei potrà difendersi meglio con una vita psichica risanata".
Freud riconosce che il mondo esterno è una delle cause, forse la principale, delle nevrosi. Ma a lui interessa, non tanto il nesso tra il "disagio della civiltà" e la nevrosi dell'umanità, che pure individua e denuncia, quanto lo scarto che rende alcuni individui nevrotici, vale a dire incapaci di amare e lavorare.
La psicoanalisi può intervenire nel senso di restituire al soggetto malato le energie impiegate nella rimozione. Solo così il nevrotico clinico potrà ritornare a vivere nella pienezza delle sue risorse. Dal canto suo la psicoanalisi non può mutare né la "situazione" né il "destino" se non attraverso la capacità di pensare e di agire creativamente del paziente risanato.
Hillman invece, novello stregone, non conosce l'impossibile ed è proprio questo che fa di Lei un Maestro della provocazione filosofica e un traditore della pratica clinica che, come ogni prassi, è limitata negli obiettivi e nei mezzi. Un binomio questo che La rende unico, irrepetibile, straordinario. Benché non tutte le Sue conclusioni siano accettabili, il Suo percorso di ricerca è mirabile.
Ed è pertanto con profonda stima e ammirazione per la cultura umanistica "rinascimentale" che Lei ha saputo riattualizzare, per la Sua vita così coerente nell'incoerenza, per l'opera tanto lieve nella sua imponenza, per la straordinaria capacità di giocare e di "stare al gioco" che Imago - Ricerche di psicoanalisi applicata Le ha conferito il premio: "Maestro e traditore della psicoanalisi" dell'anno 2001.

(Collalbo - Bolzano, 23 novembre)

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