Imago Ricerche di psicoanalisi applicata

GOETHE E FREUD
FORME DI UN IMMAGINARIO CONDIVISO


Silvia Vegetti Finzi

Freud e Goethe

"Quell'essere collettivo che porta il nome di Goethe" è una figura così centrale nella cultura tedesca che non ci stupisce sia il più citato nell'opera freudiana.

Più difficile appare il compito di riconoscere quale ruolo vi svolga. Risulta subito evidente che Freud lo evoca a più riprese come un grande saggio, come colui che ha saputo costruire un mirabile equilibrio tra il passato e il presente, la scienza e la poesia, il pensiero e la vita, l'essere e la realtà. Quando nel 1930 gli fu conferito l'ambito "Premio Goethe", Freud dichiarò che quel riconoscimento aveva segnato la vetta più alta della sua vita. Nel discorso che tenne in quell'occasione, cercò di delineare una discendenza diretta da colui che considerava un vero e proprio precursore della psicoanalisi.

Scrive Freud: "Io penso che Goethe, a differenza di tanti nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi. Egli vi si era accostato in più di un luogo, aveva riconosciuto per intuizione diretta molte cose che in seguito abbiamo potuto confermare, e parecchie concezioni che hanno attirato su di noi critiche e dileggi, sono accettate da lui come cosa ovvia. Così, per esempio, gli era familiare la forza incomparabile dei primi legami affettivi dell'uomo. Egli la celebrò nella "Dedica" del Faust con parole che potremmo ripetere in ciascuna delle nostre analisi: "Di nuovo risorgete, o fluttuanti fantasmi, / che in gioventù appariste al mio sguardo annebbiato./ Tenterò stavolta di trattenervi?/ ...Torna il mio primo amore, le prime amicizie,/ Quasi vecchie leggende mezzo cancellate dal tempo".

Non a caso Faust viene inizialmente strappato dalla tentazione del suicidio dal suono delle campane che gli ricordano l'infanzia (766-780):

A quelle sfere non oso io tendere
da cui risuona la buona novella:
eppure queste voci consuete alla mia infanzia tornano ancora a richiamarmi in vita...
La memoria d'infanzia mi richiama
ora dal grave ultimo passo.

Mentre Goethe evoca l'infanzia di Faust, Freud analizza quella di Goethe concludendo con queste parole, valide per entrambi: "le radici della mia forza stanno nel rapporto che ho avuto con mia madre".

Ma, come è noto, Faust non si limita a recuperare l'infanzia perché il suo viaggio iniziatico si spingerà ben prima della propria nascita, scendendo l'abisso del tempo sino alle sorgenti. Così come l'anamnesi psicoanalitica connette il tempo della biografia individuale (ontogenesi) con quello della storia umana (filogenesi). Le Madri (Mütter), che Freud media dal Secondo Faust, (adottandone la forma plurale, che poco si addice all'immediata esperienza psicologica, connessa piuttosto alla figura di una madre, la propria) presidiano, tra i due grandi autori di lingua tedesca, l'intersezione di un immaginario condiviso.

Per entrambi le monumentali figure della maternità primigenia si stagliano dinnanzi al loro sguardo, che si è reso cieco all'evidenza per scandagliare l'invisibile, contro l'ultimo orizzonte della conoscenza, alle frontiere del nulla, dinnanzi a "una lontananza eternamente vuota".

La loro significazione si lascia cogliere, non tanto nella decifrazione del contenuto latente, quanto negli effetti perturbanti (nel senso del freudiano di Das Unheimliche) che esse inducono. La loro presentificazione viene vissuta come una rivelazione, un'emergenza del sacro improvvisa e violenta secondo l'accezione di René Girard. Essendo simboli esse non dicono ma indicano, rinviano, rimandano: dove? Evidentemente al luogo nel quale siamo già stati e al quale desideriamo e paventiamo ritornare. In una prospettiva individuale possiamo identificare quel luogo come il preedipico, come ciò che sta prima che io diventassi io.

In senso collettivo invece come la preistoria dell'umanità, il tempo immobile dal quale scaturisce la temporalità, dal quale scocca la freccia del tempo lineare della cronologia e della storia. Oppure, in altri termini, possiamo attribuire alle Madri la funzione di personificare ciò che per definizione non ha forma, cioè la materia increata. E che della forma è l'inizio, la scaturigine.

Credo che Freud sia debitore a Goethe di una della sue più potenti e sovversive ideazioni: l'inconscio impersonale, che trascende l'individuo, la biografia, la storia, che è nel tempo senza essere scandito dal tempo, che è nel pensiero pur appartenendo, per definizione, all'impensabile.

Le Grandi Madri goethiane sono la cerniera che allaccia i due grandi visionari, Goethe e Freud. Cogliere nella connessione tra poesia e psicoanalisi gli effetti conoscitivi dell'immaginazione ci permette, almeno per un momento, di valutare la portata sovversiva dell'inconscio e di riconoscerne l'intrinseca irriducibilità al sapere.

La verità che ci è dato intravedere è al tempo stesso etica ed estetica perché segna il limite che l'onnipotenza conoscitiva incontra quando si sporge al di là dell'umano e al tempo stesso l'ignoto che attira e alimenta ogni volontà di sapere.

Quanto a me ho provato, facendo interagire tra loro testi relativamente lontani nel tempo e nello spazio, come le opere di Goethe e di Freud, l'ebbrezza dell'alchimista che si attende, dalla commistione degli elementi, l'emergere di una presenza nuova nel mondo. Gli alchimisti chiamavano 'madre' quella prima materia, quella sostanza originaria che avrebbero nobilitato sino ad estrarne la "pietra filosofale".

Ho seguito, in questo itinerario, la suggestiva esortazione di René Girard quando scrive, a conclusione Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo: "Non ho mai pensato che questi testi esistessero soltanto per essere contemplati passivamente, come delle bellezze naturali, gli alberi di un paesaggio, per esempio, o le montagne in lontananza. Ho sempre sperato che il senso facesse tutt'uno con la vita. Il pensiero attuale ci trascina verso la valle dei morti di cui cataloga a uno a uno le ossa. Siamo tutti in questa valle ma dipende da noi risuscitare il senso confrontando gli uni con gli altri tutti i testi senza eccezione invece di alcuni di essi soltanto".

Dee dell'Olimpo freudiano

Secondo una lettera inviata da Freud a Stefen Zweig, quando Breuer fuggì di fronte al parto isterico di Anna O. , "aveva in mano le chiavi che gli avrebbero aperto la strada verso le madri ma le lasciò cadere". Che cosa significa questa metafora, tanto esplicita nella lettera quanto ermetica nel contenuto?

Il richiamo al Faust II di Goethe, evidente per noi, a maggior ragione doveva risultare tale al suo corrispondente, nutrito come lui di quella cultura classica che un buon viennese apprendeva sin dal ginnasio. Ed è proprio per influenza di Goethe, della sua filosofia della natura, che il ginnasiale Freud aveva scelto la facoltà di Medicina.

Siamo nel 1932 e l'anno prima, nel famoso saggio Sessualità femminile, Freud aveva riconosciuto fondamentale - nel processo del "diventare donna" - il rapporto con la madre. Di conseguenza, la causa prima dell'isteria e della paranoia femminili sarebbero da collocare nel periodo della relazione diadica madre-figlia. Freud affronta questo segmento di riflessione teorica con uno stato d'animo del tutto particolare: di fronte all'importanza del legame originario, dimostra uno stupore che non ci saremmo attesi da uno sperimentato speleologo dell'inconscio. Scrive in proposito: "Tutto nell'ambito di questo primo attaccamento alla madre, mi sembrò difficilissimo da afferrare analiticamente, grigio, remoto, umbratile, arduo da riportare in vita, come se fosse precipitato in una rimozione particolarmente inesorabile".

Eppure da tempo aveva colto, nel sintomo isterico, un collegamento con il passato remoto, tanto da scrivere a Fliess, il 27 ottobre 1897: "La nostalgia è la caratteristica principale dell'isteria".

Ciò che ora lo turba non è il mutamento del paradigma esplicativo delle nevrosi e psicosi femminili (dal padre alla madre) ma l'incontro con il fantasma originario della madre arcaica, della figura primigenia che presiede tanto alla nascita del mondo quanto alla identificazione di sé. Scrive infatti Freud: "La cognizione di un'antica epoca preedipica nella femmina ha provocato in noi una sorpresa simile a quella che, in un altro campo, ha suscitato la scoperta della civiltà minoico-micenea precedente alla civiltà greca".

"Epoca preedipica" indica un periodo della vita individuale nel quale il padre non è stato ancora riconosciuto e pertanto la madre costituisce per il bambino l'unico referente. Un mondo senza padre risulta a Freud, che vive in una cultura patriarcale, così minaccioso che non finirà mai di allontanarlo e, per quanto possibile, di esorcizzarlo. Un primo tentativo in tal senso è quello di relegarlo all'interno dello sviluppo femminile, come se la madre non rappresentasse anche per il figlio maschio l'originario oggetto d'amore.

Alla luce dell'intera opera freudiana ci risulta ora agevole comprendere che le chiavi, lasciate cadere da Breuer, rivestono una molteplici di simboli. Rappresentano, infatti, il coraggio e la violenza epistemofilica che reggono la passione di sapere dell'analista, ma rinviano anche alla strada da percorrere: l'immaginario femminile che via via si disvela nell'interpretazione transferale del sintomo. Infine l'evocazione delle madri consente di prefigurare il punto d'arrivo: i limiti estremi dell'inconscio. Anzi ciò che lo oltrepassa perché, come vedremo, le madri si collocano non solo al di là del perimetro della coscienza ma anche oltre le Colonne d'Ercole dell'inconscio storico e individuale.

La metafora faustiana delle madri riveste nell'impresa psicoanalitica una funzione polisemica, variando a seconda che il discorso si svolga in un ambito metapsicologico, di storia delle religioni oppure evochi un orizzonte filosofico o meglio ancora metafisico. Comunque, come sostiene P. L. Assoun: le Madri ci conducono ai misteri della forma, ci ingaggiano nella questione dell'origine. Danno forma materiale a un enigma. "Surgies d'un texte, ces "Mères" se revelent donc avoir partie liée avec le "savoir de l'incoscient".

Nel contesto della metapsicologia, le Madri rappresentano le pulsioni (Triebe, spinte) intese come carica energetica, fattore di mobilità che fa tendere l'organismo verso una méta. Méta che si rivelerà progressivamente coincidere con uno stato di inerzia, corrispondente alla morte biologica dell'organismo stesso. Pulsioni di vita e pulsioni di morte non sono però opposte in quanto normalmente esse procedono insieme: mentre Eros lega, Thanatos separa gli elementi in gioco. E' soltanto il loro disimpasto che provoca una fusione annichilente o una polarizzazione letale.

Benché le pulsioni svolgano, nella psicoanalisi, un ruolo analogo a quello degli elementi primi delle scienze naturali, sembra si possano rappresentare solo miticamente. Osserva infatti Freud: "la dottrina delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia". E, nella lettera ad Einstein ribadisce: "Lei ha forse l'impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica? "

Ammesso che non vi siano altre modalità di considerare le energie vitali, per quale ragione Freud privilegia le Grandi Madri, dato che la mitologia possiede un repertorio di immagini pressoché illimitato? Forse perché esse rappresentano l'origine e le pulsioni sono appunto all'origine del funzionamento psichico. Inoltre entrambe sono costituite da elementi polari: corpo e anima, vita e morte, materia ed energia, eternità e tempo e i simboli delle Grandi Madri svelano la simultaneità delle parti contrapposte e l'eterna tensione alla loro ricomposizione.

Tuttavia quando, in Totem e tabù (1912-13), Freud ricostruisce una possibile storia dell'umanità, colloca, non la madre, ma il padre al centro della "scena primaria" della civiltà. Priorità che ribadisce nel 1921, in Psicologia delle masse e analisi dell'Io allorché, nella "analisi genetica della religione", assegna il posto inaugurale alla preistorica figura del padre dell'orda, all'ominide che detenne un tempo tutte le femmine e generò tutti i figli.

Nel mito freudiano il padre primigenio, ucciso dai figli rivali, venne idealizzato ed elevato a creatore del mondo, ma ciò non avvenne subito perché la sua divinizzazione fu anticipata da quella delle Dee Madri. Vediamo cosa avvenne. Dopo la sua morte, nessuno degli appartenenti alla massa dei vincitori potè prenderne il posto e, se lo fece, le lotte si rinnovarono sinché tutti compresero che dovevano rinunciare alla successione. Sul vuoto lasciato dai conflitti fratricidi, ipotizza Freud, dovette sorgere una comunità materna, una specie di matriarcato come quello evocato da Bachofen. Quando, in un secondo tempo, gli uomini ripresero, seppure in forme molto diverse dall'orda primitiva, il comando della società, "a titolo di indennizzo" riconobbero le divinità materne, i cui sacerdoti vennero evirati a tutela della madre, secondo l'esempio che era stato dato dal padre dell'orda primordiale". In questo schema la divinizzazione delle Grandi Madri rappresenta una forma di riparazione nei confronti dello spossessamento delle donne reali.

Nel frattempo i padri erano diventati molti e ognuno limitava, con insoddisfazione di tutti, i diritti degli altri. L'impossibilità di esercitare il dominio assoluto indusse allora uno dei singoli a svincolarsi dalla massa e ad assumere il ruolo che era stato del padre. Non nella società ma nella fantasia. Chi compì questo passo trasgressivo fu il primo poeta epico che, come nota Freud, "contraffece la realtà accordandola alla propria nostalgia". Inventò il mito dell'eroe come colui che da solo aveva ammazzato il padre e lo elevò ad ideale dell'Io. Il mito costituisce il primo passo con cui il singolo esce dalla psicologia collettiva per compiere un percorso di individuazione che culmina nella figura dell'eroe. Ma a sua volta la divinizzazione dell'eroe prepara il ritorno del padre primordiale sotto forma di divinità. "La successione degli dei - conclude Freud - sarebbe quindi cronologicamente questa: dea madre, eroe, dio padre". Il tutto preceduto però dall'uccisione del padre originario.

La Grande Madre, benché non rappresenti, nella cronologia freudiana, l'origine del processo di civilizzazione (funzione questa attribuita al padre), compare tuttavia al primo posto nell'ordine genealogico delle divinità. Potremmo perciò dedurre che, mentre l'uccisione del padre inaugura la società, la destituzione del potere femminile inaugura la cultura. Nello schema freudiano, la dea madre non appartiene al registro del mito, che inizia successivamente, con l'epica eroica, ma ad un universo di immagini statiche, di icone, senza tempo e quindi senza narrazione. La loro rappresentazione si configura pertanto come subitanea apparizione del sacro.

Poiché origine del mito e origine della psicologia individuale vengono fatti coincidere, le divinità materne restano relegate a un'epoca dell'umanità che potremmo definire collettiva. Così come le divinità materne risarciscono le donne del perduto potere comune, la figura dell'eroe prima e del dio poi compensano gli uomini della rinuncia al dominio assoluto.

Da parte femminile icone mute, da parte maschili i grandi poemi che stanno all'origine delle civiltà. Nel nostro caso l'Iliade e l'Odissea. Le dee materne sono comunque destinate a sopravvivere ai mutamenti storici e Freud già mostrato la continuità di certi fondamentali elementi di culto nel passaggio da una religione all'altra nel brevissimo saggio del 1911: Grande è la Diana efesia.

La ricostruzione freudiana, fatta di congetture, non esibisce documenti in quanto si appella all'evidenza, alla koinè culturale che fa capo, nella cultura di lingua tedesca, a due grandi studiosi di matriarcato come Goethe e Bachofen. Altrove Freud nota come, anche quando gli dei siano molti, il dio creatore è sempre uno e prosegue osservando: "E' anche interessante che per lo più egli sia un uomo, benché non manchino affatto accenni a divinità femminili e talune mitologie facciano iniziare la creazione dell'universo proprio con l'eliminazione, da parte di un dio maschile, di una divinità femminile, la quale viene abbassata al rango di mostro".

La successione delle divinità, il passaggio dal regno della madri a quello degli eroi e degli dei non è quindi incruento e le conseguenze di tale inversione si possono rintracciare tanto nella cultura quanto nella psiche individuale. In una delle sue ultime opere, L'uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-8), Freud ritorna sul passaggio dal matriarcato al patriarcato e questa volta è per rimarcare una contrapposizione polare tra le due posizioni. Scrive infatti Freud: "Ma questo volgersi dalla madre al padre segna oltre a ciò una vittoria dello spirito sulla sensibilità, cioè un progresso di civiltà, giacché la maternità è provata dall'attestazione dei sensi, mentre la paternità è ipotetica, costruita su una deduzione e una premessa. Schierarsi dalla parte del processo di pensiero piuttosto che della percezione sensoriale, si dimostra un passo gravido di conseguenze". Freud non chiarisce che cosa intenda con il termine "conseguenze". Forse quella contrapposizione tra materia e forma che separa così dissimmetricamente i due sessi e che fa della maternità un processo cieco.

Il ritorno alle Madri può significare allora una possibile ricomposizione della frattura più profonda che attraversi la nostra cultura separando non solo il maschile dal femminile ma anche il corpo e l'anima, la ragione e i sentimenti , il conscio e l'inconscio. In ogni caso vi è qualche cosa che viene collocato fuori, prima e al di là del perimetro della razionalità, che il discorso non può dire ma soltanto evocare, magari nella forma della impossibilità, dell'assenza, dell'impotenza e della paura.

Oltre il sogno, al di là dell'inconscio

Come è noto Freud preannuncia, in una nota apparentemente marginale dell'Interpretazione dei sogni (1900), quella che sarà poi la svolta più importante del suo pensiero. Commentando non un sogno qualunque ma quel "sogno di Irma" cui egli attribuisce il valore di "campione", scrive: "Sento che l'interpretazione di questo punto non si è spinta a raggiungere ogni significato celato. ...Ogni sogno ha perlomeno un punto in cui esso è insondabile, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto all'ignoto". La nota si riferisce a un momento pregnante della rappresentazione onirica, quando, di fronte alla bocca spalancata della sua riottosa paziente, Freud commenta: "racconterebbe più di quanto non faccia Irma".

In certi ambiti l'immagine possiede una capacità evocativa che invece il discorso non ha, come se le parole fossero incapaci di dire ciò che sta prima della loro apparizione. Poiché la gola di Irma simbolizza, secondo un'interpretazione ormai consensuale, la matrice femminile, l'ombelico del sogno sembra congiungere la donna alla madre, o meglio alla maternità impersonale. Di conseguenza, l'incommensurabile del tempo onirico si apre all'illimitato dell'origine.

Ricordiamo a questo punto che il sogno costituisce non solo la "via regia verso l'inconscio" ma anche la miglior rappresentazione del suo funzionamento. Se il sogno si apre all'ignoto, non è più possibile racchiudere l'inconscio nell'apparato psichico individuale. Esso ha un oltre e questo "oltre" si configura come "altro" nel senso che Freud gli attribuisce quando, analizzando l'attacco isterico afferma: " Attacchi di vertigine e crisi di pianto sono tutte cose dirette verso l'Altro, e per di più verso quel preistorico indimenticabile Altro che in seguito non sarà mai eguagliato da nessuno".

La equiparazione dell'Inconscio col rimosso, che contraddistingue la prima topica, si rivela ben presto angusta. Vi è una dimensione esterna, non perimetrata e non perimetrabile, che si configura come il nuovo spazio dell'indagine analitica. Nella discussione che conclude la relazione tenuta da Freud presso la Società Psicoanalitica di Vienna il 20 febbraio 1907 sul libro di Moebius, La disperazione di ogni psicologia, il relatore scrive: "Bisogna supporre una stratificazione dell'inconscio: un inconscio capace di divenire cosciente, che è il motore dei processi psichici; e dietro di esso un inconscio eterno". Se, nella prima topica, la madre preistorica può raffigurare le pulsioni, la loro aurorale rappresentazione inconscia, successivamente la sua figura assume anche altre, più complesse valenze.

Quando, con il saggio L'io e l'Es del 1923 Freud elabora una seconda topica dell'apparato psichico, sostituisce all'Inconscio (che assume d'ora in poi un senso qualitativo) l'istanza che denomina Es. Non si tratta solo di una differenza terminologica ma di una rielaborazione radicale che sembra dar conto, in un certo senso, della nota posta a commento del sogno di Irma. Ora l'area della psicoanalisi comprende, oltre al rimosso individuale, anche la storia e la preistoria collettiva, ciò che stava appunto al di là de "l'ombelico del sogno".

Freud definisce l'Es, riallacciandosi a Nietzsche tramite Groddeck, quanto nel nostro essere vi è di impersonale e, per così dire, di naturalisticamente necessitato. E nella sua ultima opera, il Compendio, specifica: "è tutto ciò che è ereditato, presente sin dalla nascita, stabilito per costituzione...". Una definizione che richiama, come vedremo, proprio le madri originarie, nel loro statuto di impersonale necessità.

L'Es ha una struttura interna, una organizzazione specifica? No, risponde Freud, "l'Es si riempie di energia, ma non possiede un'organizzazione, non esprime una volontà unitaria. ...Nulla si trova nell'Es che corrisponda all'idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e - cosa notevolissima e che attende un'esatta valutazione filosofica - nessuna alterazione del processo psichico ad opera dello scorrere del tempo. ...Ho costantemente l'impressione che da questo fatto accertato al di là di ogni dubbio ....noi abbiamo tratto troppo poco profitto per la nostra teoria. Eppure qui sembra aprirsi un varco capace di farci accedere alle massime profondità. Purtroppo nemmeno io sono andato oltre questo punto".

Il " varco che si apre verso le massime profondità" è stato oltrepassato, se non dallo scienziato, dal poeta , ed è proprio ad uno dei massimi poemi, al Faust di Goethe, che affideremo ora l'investigazione di quell' "oltre" che Freud aveva individuato e dal quale si era ritirato con sgomento.

 Verso il regno delle Madri

Tutto inizia con la "assurda", "fatua" promessa di Faust di donare all'imperatore la coppia originaria del mondo omerico: Elena e Paride, "i modelli dell'uomo e della donna", realtà e simboli della bellezza incontaminata. Si tratta ora di sottrarre quegli eterni archetipi all'oblio cui i secoli li hanno relegati e di riconsegnarli alla contemporaneità come una "realtà da interrogare, amare e temere". Una scommessa che Goethe, attraverso Faust, fa con il proprio tempo e "perdere questa scommessa significa perdere, insieme alla propria vita, il destino di una civiltà, abbandonandola alla pragmaticità, all'utile, alla laicizzazione progressiva".

Poiché l'essenza della bellezza è enigmatica, ogni razionalizzazione la condanna all'incomprensione. La bellezza è un tesoro, dice Goethe, e come tale non è monetizzabile ma incommensurabile e misteriosa come l'oro che giace nelle viscere della terra. La figura di Elena, scrive Zecchi, " ha in sé sia la forza che produce una pulsione originaria, sia la qualità del simbolo; ha la concretezza materiale e visiva dell'oro e l'ineffabilità, l'oscurità del mistero, ha la materialità erotica del corpo vivente e l'indicibilità del simbolo". Come tale non appartiene al tempo delle cose ma alla perennità delle forme.

Per entrare nella storia Elena dovrà prima incontrare Mefistofele trasformato nella orribile Forciade, figura sfigurata, dotata di un solo occhio e un solo dente. Venendo al mondo la bellezza si contamina infatti con la bruttezza, con il dolore, con la morte. La forma vivente, rinunciando all'assoluto, diviene una lebendige Form.

Se vuole rievocare la forma unica del bello, Faust non può prescindere dal diabolico potere di Mefistofele, da colui che tiene in pugno la sua vita. All'inizio dell'impresa, i due si incontrano in una galleria oscura ed entrambi riluttano, sebbene in modo diverso, ad intraprendere il viaggio verso l'ignoto. Mefistofele allude minaccioso alla necessità di affrontare una scala ripida, di entrare in un terreno sconosciuto e di contrarre nuovi sconsiderati impegni. Ma Faust non demorde e, dopo averlo sbeffeggiato, imperioso ordina a Mefistofele: "Parla e spicciati" (6212).

A questo punto il testo abbandona la baruffa da commedia e assume un tono sacro che spiazza completamente il lettore trasportandolo dal mondo delle parole a quello delle immagini.

Enuncia Mefistofele (6212-6216):

Svelo di malavoglia mistero così alto.
Dee dominano altere in solitudine.
Non luogo intorno ad esse e meno ancora tempo.

Parlarne è arduo. Sono le madri!

Termine ambiguo "le madri" sospeso tra determinatezza e indeterminatezza, evidenza e ambiguità. Il suono stesso della parola "Madri!" risulta così strano (wunderlich) da suscitare in Faust brividi di terrore. Esse compiano sulla scena come doppia sostanza di figura e di suono, con la terrificante evidenza dell'incubo. Commenta Mefistofele (6218-6221):

E strano è,
a voi mortali dee
ignote, da noi
non volentieri nominate.
Sulla via alle loro dimore dovrai esplorare gli abissi.
Ne hai colpa tu, se ne abbiamo bisogno.

Poiché loro natura ignota le colloca nell'inconscio, raggiungerle implica una discesa verso gli inferi analoga a quella che Freud compie nell'Interpretazione dei sogni, il cui exergo suona, come sappiamo: Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo ovvero, "se non riuscirò a piegare gli dei, sposterò i demoni".

Per giungere ai misteri delle forme, rappresentati da Elena e Paride, occorre scendere nelle viscere della materia. Mentre Platone nel Fedro, cui Goethe si ispira per descrivere Elena, colloca le forme pure in alto, Goethe le sprofonda nel basso. Ma questa indicazione riguarda solo il viaggiatore poiché le Madri non hanno né tempo né luogo.

A Faust che gli chiede: "Dov'è la via?", Mefistofele risponde (6222-6227):

Via non c'è! Nell'inesplorato
che non si può esplorare; via al non impetrato
che non si può impetrare . Sei pronto?
Non serrami ci sono, non catene da rompere.
sarai travolto dalle solitudini.
Deserto, solitudine; che siano, ne hai un'idea?

L'inconscio non ha né tempo né spazio, ma chi lo affronta si impegna nella questione delle origini, oltrepassa "l'ombelico del sogno."

Goethe anima la scena che sta oltre l'onirico con l'apparizione spettrale e sonora della Madri, le stesse che Breuer si è rifiutato di incontrare e che Freud invece ha visto e sfuggito per tutta la vita. Esse rivelano qualche cosa che Freud non ha mai voluto teorizzare direttamente: la componente inconscia della maternità, dove "inconscia" non significa soltanto rimossa, ma anche impersonale, atemporale, contraddittoria, perturbante, u-topica. Inizialmente Freud denomina l'inconscio das Ding, la cosa. Uno zoccolo duro della conoscenza dal quale si è sempre ritratto, pur riconoscendovi, con una certa approssimazione, il limite invalicabile di ogni analisi.

Ma il concetto di materia è inscindibile da quello di forma. "La nostra mente può concepire - scrive Citati - delle pure forme, che non sono mai nate e che non moriranno: i nostri occhi scorgono ogni giorno mille, bellissime, cangianti figure terrestri. Ma com'è possibile che questi due mondi comunichino: che qualche cosa che "è" si cali nel divenire: che un puro pensiero prenda corpo, scenda in un tempo e in un luogo? Come vedremo Faust conoscerà il tragico significato di questo paradosso". Una conoscenza più emozionale che razionale ma la rappresentazione del mistero, seppure nella forma iconica del simbolo, è già un'apparizione di verità.

Comunque, la discesa verso gli Inferi originari, in quanto valica il limite dell'umano, si configura come una colpa. "Ne hai colpa tu", dice Mefistofele rivolto a Faust, anticipando così il tema centrale della riflessione psicoanalitica ma in un certo senso di tutta la nostra cultura, sin dal peccato originale, vale a dire la connessione tra conoscenza e trasgressione. Ma il desiderio di verità è oltre che empio, impossibile. Nell'inquietudine che le Grandi Madri destano in chi soltanto le evoca si rivela l'inconoscibilità della loro essenza. Mefistofele insiste nel tentativo di far desistere Faust dall'impresa (6239-6248):

E se anche a nuoto varcassi l'oceano
e di là tu guardassi l'illimitato: ma almeno
là vedresti venire onda su onda
e pur nel tremito del tuo sparire.
Ma vedresti qualcosa, vedresti nel verde
di mari quieti delfini vaganti,
nubi vedresti migrare, soli, astri, luna...

Ma in quella lontananza eternamente

vuota non vedresti nulla.
Non udrai il passo che posi.
Dove tu sosterai nulla di certo.

Nella contrapposizione tra il mare e il vuoto, tra l'illimitato e il nulla, Goethe esprime tutto lo sgomento dell'anima umana di fronte al venir meno della vita: della luce degli astri, dei colori, del movimento, del suono, degli esseri animali ed umani così come si pongono alla nostra esperienza.

Sostare nel nulla mette in crisi ogni certezza, rischia di perderci a noi stessi riportandoci a quel regno delle Madri dal quale, per esistere, ci siamo distaccati una volta per tutte. La discesa agli Inferi di Faust equivale, nell'esperienza individuale, alla regressione verso l'origine, verso il pericoloso confine tra l'esserci e il non-essere. Zona limite che confronta, chi vi fa ritorno, con l'angoscia della follia. Per questo, dice Freud, sostituiamo simbolicamente quella porta verso il nulla che è il genitale materno, con la testa della Medusa che nega ciò che afferma in un ossimoro che nessuna interpretazione può disambiguare e che solo l'orrore può adeguatamente significare.

Di fronte all'effetto orripilante del genitale femminile che, sostiene Freud rievocando Rabelais, mette in fuga anche il diavolo, il membro maschile eretto funge da oggetto apotropaico: "Mostrare il pene - e tutti i suoi surrogati - vuol dire: non ho più paura di te, ti sfido, ho un pene. Ecco dunque un'altra via per l'intimidazione dello spirito malvagio! "

Impossibile a questo punto non interpretare in senso fallico la chiave che Mefistofele consegna a Faust, sempre più motivato nella sua folle impresa. Osserva Faust sconcertato (6259-6264):

Questa piccola cosa!
Mi cresce in pugno!
Mette luce, lampi!

E Mefistofele di rimando:
Cominci ora a capire che cos'ha chi la tiene?
La chiave scoprirà il luogo preciso.
Tu seguila. Ti guiderà alle Madri. Ma se le madri sono il Nulla che cosa vi cerca Faust? La sua risposta è lapidaria: il Tutto. La coincidenza con il valore attribuito da Lacan al Fallo come rappresentante dell'Uno, del Tutto, non può essere trascurata. Così come il valore eterno che Freud attribuisce al desiderio della madre per cui ogni altro successivo desiderio non è che la metonimica, reiterata ricerca di quel primo impossibile oggetto d'amore.

In un altro senso, il ritorno alla madre si configura come silenzioso procedere della pulsione di morte, come annientamento di ogni tensione vitale, fondata sulla mancanza, su gradienti di differenza, nella coincidenza immobile del Tutto col Nulla. Ma chi vuole la fine deve attraversare il mezzo, deve compiere il viaggio iniziatico che il mistagogo Faust si accinge a intraprendere. Ancora un volta il suo ardimento vacilla al suono della parola "Madri".

"Che cos'ha questa parola che non posso ascoltarla?" Si chiede Faust. Non vi è risposta a questa domanda se non nel tentativo di rimotirvarsi all'impresa ricordando a se stesso quanto sia temibile, oltre alla solitudine e all'insignificanza (il vivere negletto) l'indifferenza.

Afferma Faust (6271-6274):

Non nell'indifferenza, cerco la mia salvezza
Il brivido di meraviglia è quanto di meglio abbia l'uomo.
Anche se il mondo gli fa pagare caro il sentimento,
sente in profondo, quando è commosso, l'immensità.

Stringendo forte in pugno la chiave che gli dà nuova forza, Faust parte seguendo le contraddittorie direttive di Mefistofele che gli ordina (6275-6277):

Sprofonda, allora! Potrei dire; sali!

E' lo stesso...

Il "non luogo delle madri" non può essere raggiunto per la via della conoscenza, attraverso un sapere lineare. Esso appare come una illuminazione alla luce di un tripode intorno al quale figure spettrali siedono in trono o si muovono a caso. Benché siano molte, le Madri esprimono un'estrema solitudine. Indifferenti, distratte, sono viste ma non vedono.

"Formarsi, trasformarsi, eterno gioco dell'eterno senno" (6287-6288), commenta Mefistofele a proposito delle continue metamorfosi cui è soggetta la materia. Entrambi i termini "madre" e "materia" discendono infatti da una comune radice mater. Intorno a queste divinità ctonie ruotano le immagini di tutte le creature, poiché dove non vi è né tempo né luogo nulla può disparire. Per la stessa ragione l'inconscio conserva nei suoi archivi traccia di ogni nostra esperienza.

Faust, seguendo le prescrizioni di Mefistofele, tocca il tripode con la chiave e questo lo segue come un "servo fedele" lungo la via del ritorno. Furto degno di Prometeo, il tripode rappresenta la forza realizzatrice del desiderio. Giunto alla luce, dai fumi del tripode usciranno, impresa mai tentata prima, i due simboli della bellezza: Elena e Paride. Gli archetipi, sottratti all'eternità, sono così riconsegnati al tempo e alla storia.

Le Grandi Madri, entro le quali si celavano, restano invece fisse nel nulla dal quale tutto si origina: Urphänomene. Il loro tempo è, come quello dell'inconscio, l'ossimoro del futuro remoto: "sarà stato". Esse rimangono là, "negli aperti reami delle forme possibili" da cui si stacca "ciò che ha già forma". Ma oltre a questa funzione di presidio, le dee eterne sovraintendono alla formazione (Gestalgung) e trasformazione (Umgestalgung) di tutte le cose, al passaggio dallo schema alla realtà, dall'essere al mondo, al "dolce corso della vita", "sotto la tenda del giorno e la volta delle notti". Metafore assolute - nel senso di Blumenberg - le dee primigenie non possono essere interpretate.

Nel colloquio che il 10 gennaio 1830 Goethe ebbe con Eckerman, gli disse di aver ricevuto la prima idea di questi esseri solenni da Plutarco, dai suoi scritti sulla Vita di Marcello e sulla Decadenza degli oracoli, in quest'ultimo si parla di un "campo di verità" nel quale si trovano le basi (lògoi), le forme e le immagini originarie di tutto quello che esiste ed esisterà.

"Contaminando con questo spunto - scrive Franco Fortini - alcuni motivi della filosofia greca (pitagorici, platonici e neoplatonici), fondendoli con altri del tardo Rinascimento ma soprattutto con la meditazione durata tutta la sua esistenza, e con quanto in quella è riferibile a Spinoza e a Leibniz, Goethe vede nelle Madri le custodi delle essenze immutabili ed eterne da cui traggono origine le esistenze particolari".

Sappiamo dal rito e dal mito che le Grandi Madri rappresentano al tempo stesso la fecondità della terra e del grembo femminile, la vita e la morte. Le madri incarnano il principio e la fine dell'essere, sono materia primigenia sulla quale si disegnano tutte le forme. L'alchimia denomina con il termine "madri" gli elementi intesi come "matrices rerum omnium". Ma Goethe spinge la connotazione alchemica ad assumere una funzione metafisica. Esse simbolizzano pertanto l'immanenza radicale dei principi alchemici e la trascendenza della verità. Sono ciò che bisogna presupporre. Ma il sapere estremo genera angoscia, alla quale si può ovviare con la religiosità, con il rito che modera la violenta apparizione del sacro.

Tempo dell'uomo e tempo della vita

Anche Freud, come abbiamo premesso, fugge dalla conturbante figura della maternità primigenia, dalla sua incollocabilità e compresenza dei contrari.

Nel saggio Il motivo della scelta degli scrigni, ripercorre infatti in senso storico l'elaborazione compiuta dalla cultura dei confronti del simbolo commisto della Grande Madre. "Le grandi divinità-madri dei popoli orientali - scrive - sembra fossero generatrici e annientatrici insieme, dee della vita e della fecondità nello stesso tempo che dee della morte". La mitologia greca più antica conosce solo una Moira che rappresenta l'inesorabilità del destino. Ma la sua unicità viene poi sostituita da una terna di divinità. "Esse sono i simboli del destino, le Moire o Parche o Norne, la terza delle quali ha nome Atropo: l'inesorabile".

Il passaggio dall'uno al tre rappresenta lo stemperarsi del tempo immobile nella successione delle stagioni, dove nascita, vita e morte si susseguono secondo un andamento ciclico. Le Moire rappresentano la consapevolezza dell'uomo di essere anch'egli parte della natura e, come tale, soggetto alla morte.

Ma contro tale angosciosa verità, la fantasia sostituisce, già dalla scelta di Paride, la dea della morte con quella dell'amore. La terza figura femminile sarà sempre la più bella e la più buona. L'oggetto del desiderio viene così a nascondere il volto inesorabile della morte e quando nei miti e nelle favole l'uomo pensa di scegliere, tra le tre dee, le tre sorelle, le tre figlie, le tre scatole, non si avvede di essere mosso dalla necessità perché comunque il destino lo costringerà a scegliere la terza, cioè la morte.

Nella vita dell'uomo la Dea madre si dispiega lungo tre figure che scandiscono il suo tempo mortale: colei che lo genera, colei che gli è compagna e colei che lo annienta: la madre vera, la donna amata che egli sceglie secondo l'immagine della madre e, infine, la madre terra che lo riprende nel suo seno. "Ma quando un uomo è ormai vecchio - conclude Freud - il suo anelito all'amore di una donna, a quell'amore che a suo tempo aveva ottenuto dalla madre, è vano. Solo la terza delle creature fatali, la silenziosa Dea della Morte, lo accoglierà tra le sue braccia".

Come abbiamo visto, Freud preferisce seguire il corso della cultura e allontanarsi dalla fissità dell'origine a favore di una consolatoria ciclicità. Tuttavia rimane nel suo lavoro la presenza di una generatività impersonale ed eterna nella teoria del germen separato dal soma, secondo la concezione di Weismann. Scrive in proposito: "L'individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal suo volere. Egli considera la sessualità come uno dei suoi propri fini ; ma da un altro punto di vista, egli stesso non è che un'appendice del suo plasma germinale a disposizione del quale pone le proprie forze in cambio di un premio di piacere".

L'abbandono del simbolo della Maternità primigenia ci impedisce di "vedere" con gli occhi della mente l'aspetto impersonale, necessitante della generazione. Usciti dal regno delle madri, impediti come Orfeo di volgerci indietro, procediamo come se la vita e la morte fossero ormai nelle nostre mani.

La fecondazione artificiale richiede che il problema dell'origine sia cancellato a favore del tempo presente e della dimensione individuale. Come presagendo un futuro che ai suoi tempi era sicuramente solo fantasia, in un capitolo successivo Goethe immagina che Mefistofele e Wagner, l'assistente di Faust che ha preso il posto del maestro lontano, mettano al mondo un homunculus in provetta, un grottesco bambino dell'alchimia in cui possiamo riconoscere un'inquietante anticipazione degli attuali "figli della scienza".

L'Homunculus, figlio di due padri

L'opus magnum, risultato di un sapere plurisecolare che in Wagner ha raggiunto l'unità, si svolge in un laboratorio concepito da Goethe "nel senso medioevale del termine, con apparecchi ingombranti e goffi per esperienze fantastiche". Ma, nonostante la scenografia arretrata, il successore di Faust già adombra la scienza moderna. Come osserva Citati: "Wagner è già un moderno scienziato sperimentale: un precursore o un allievo di Newton, il ‘pozzo di ogni iniquità', ‘Bal Isaak', come Goethe, nei momenti di malumore amava chiamarlo".

Wagner, che conoscevamo come un pallido e astenico bibliofilo umanista, è presentato ora nelle sembianze di un dio metallurgico: con gli occhi rossi e lacrimanti, sporco di fuliggine nera, soffia sul fuoco e attizza la brace come un carbonaio. Ma il risultato del suo lavoro contrasta profondamente con la strumentazione "calda", tipica della prima produzione industriale. Tutto si svolge infatti in una provetta.

" Che succede ? " - chiede Mefistofele - "Si sta formando un uomo".

" Un uomo? - chiede ancora Mefistofele - E che coppia di amanti ha chiuso nei fornelli? " (6835-6838). Ma non vi sono amanti né amore, ciò che agisce è la passione congiunta del sapere e del potere. Wagner coagula e cristallizza nel suo crogiuolo la vita senza vivente. Goethe trova parole tenerissime per accomiatarsi da quel modo di procreare che Wagner, dopo averlo sostituito con l'artificio, sta denigrando e rimpiangendo al tempo stesso. Wagner (6838-6847):

...Per noi il modo antico di procreare è una sciocchezza.
Il punto delicato da cui sprizza la vita,
la dolce forza che dall'intimo balzava,
che prendeva e che dava, destinata
a disegnare se stessa, ad appropriarsi
prima quel ch'è più prossimo, poi quello ch'è più estraneo,
ora è stata deposta dalla sua dignità.
L'animale ci trova ancora gusto
ma l'uomo con le sue capacità
grandiose avrà più alta, molto più alta origine.

Sarà la tecnica a separare l'uomo dalla discendenza animale, a sottrarlo per sempre a quella ingombrante genealogia darwiniana in cui Freud riconosceva la seconda ferita narcisistica inferta all'uomo dalla scienza moderna, quella biologica. Spetterà alle capacità grandiose della tecnica permettergli una "molto più alta origine".

Nel momento della nuova nascita con trepidazione materna Wagner esclama, osservando la provetta (6872-6879):

Una forza soave fa che il vetro tintinni.
Si turba. Si schiara; deve dunque riuscire!
Vedo in gentil forma dimenarsi un omarino.
Noi che cosa vogliamo, il mondo che vuole di più?
Il mistero è alla luce del giorno.
A questo suono porga orecchio: si fa voce, si fa parola.

Finito il mondo degli dei e degli eroi è ora l'epoca, sembra dirci Goethe, degli "omarini in bottiglia". Sono davvero loro la progenie umana dell'uomo emancipato dalla sua componente corporea, bestiale, mortale? Nato dall'azione trasformatrice della tecnica, dalla realizzazione di un mito ermetico, l'homunculus si rivolge a Mefistofele con queste parole (6885-6890):

Ma tu, signor cugino, l'Ironico, sei qui?
Proprio al momento giusto, Grazie.
Sorte benigna ti mena tra noi.
Siccome esisto debbo anche agire.
Vorrei mettermi al lavoro subito.
Tu sei capace di farmi più breve la strada.

Considerato dal suo produttore un super-uomo, in realtà l'homunculus è un mezzo demone, cugino di Mefistofele e figlio (?) di Wagner. Ovvero figlio materiale di Wagner e spirituale di Mefistofele.

Goethe prefigura qui la procreazione da un unico genere, quello maschile, che costituisce l'immaginario inconscio delle biotecnologie. La culla di vetro dalla quale nascerà l'uomo artificiale è stretta tra le trepidanti mani dell'apprendista stregone, frutto della sua capacità di aggregare, "cristallizzare" elementi diversi secondo una combinazione meccanica che sostituisce quella vitale. L'assenza più clamorosa sulla "nuova scena del parto" è infatti quella della madre.

Nato dall'agire trasformativo, l'homunculus non può che lavorare perché solo nel lavoro la modernità trova modo di soggettivarsi. E di eludere le vere domande, come quella maliziosamente avanzata da Mefistofele, irritato per l'ingenuo trionfalismo di Wagner; Mefistofele (6886-6900):

Basta! Vorrei sapere invece come mai l'uomo e la donna non vanno d'accordo.
A questo, caro, non ci arriverai.
Ma c'è da fare, qui; è quel che vuole questo esserino.

Alla domanda sembra rispondere Freud quando, al fine della sua opera, nel Compendio, scrive: "In tutto il suo mistero si erge tra noi il dato biologico della duplicità dei sessi, elemento ultimo del nostro sapere, caparbiamente irriducibile ad altro. La psicoanalisi non ha contribuito in alcun modo al chiarimento di questo problema, il quale palesemente appartiene per intero alla biologia". E' chiaro che il termine "biologia" va qui inteso nel significato più ampio, come discorso sulla vita, quella vita che avevamo "visto" emergere dal corpo sacro delle Madri e che si riduce invece, nel laboratorio alchemico, a processo trasformativo di elementi insufflati da una vitalità diabolica.

Là Dee altere abitano in solitudine, isolate in una u-topia senza tempo; in quanto rappresentano la coesistenza delle forme perenni e dei fenomeni, danno la vita ma di per sé non sono vive. Qui figure maschili eterogenee - un demone, un erudito, un homunculus - si confrontano nello spazio angusto del laboratorio alchemico che prefigura quello biotecnico.

Il problema dell'Homunculus, che nato dalla fusione di elementi primi non ha genealogia né referenti che non siano la sintesi dei suoi componenti, è quello di persistere al di fuori del tempo che muta, di esistere rimanendo estraneo alle perenni metamorfosi dei fenomeni. Ridotto a una scintilla di luminosa intelligenza racchiusa in un'ampolla di cristallo potrebbe sussistere nel tempo immobile e nello spazio vuoto. Per certi aspetti Homunculus, senza passato e senza futuro, rappresenta un voto che Goethe esprime due volte per bocca di Mefistofele (1338-1341):

... Nulla c'è che nasca e non meriti di finire disfatto.

Meglio sarebbe che nulla nascesse.

E ancora (11596-11603)

Passato! Che parola sciocca!
Perché "passato"? Passato e puro nulla: identità completa.
Questo perpetuo creare, allora, perché?
Per travolgere nel nulla quel che è stato creato?
"E' passato!" Come dobbiamo intenderla, questa parola? E' come non fosse mai stato eppure si agita in cerchio, come esistesse.
Preferirei, fossi io, il vuoto eterno.

"Ma - sembra dirci Goethe - la vita è animata da un desiderio di esistere incompatibile con l'immobilità". Homunculus non si appaga di un sapere contemplativo: estremo prodotto dell'immaginario neoplatonico e della magia medioevale, è tuttavia gettato nella modernità e, come tale, animato da un'ansia di efficienza. L'esistenza consiste per lui nel lavoro, la sua domanda essenziale è: "Che cosa c'è da fare?" Ma come potrà mai agire un puro spirito privo di corpo? Vi è una contraddizione insanabile tra la sua inconsistenza e la sua "volontà di potenza". Lo sguardo di Homunculus, svincolato dalle gotiche ombre di Mefistofele e dal trionfalismo scientista di Wagner, libero come un intelletto disincarnato, guarda il mondo da parte a parte, trapassa il cuore degli uomini, ne individua i sogni e pensieri del giorno, nulla gli è ignoto. Il suo sapere non conosce limite e freno, nulla lo trattiene dall'affrontare la terribile Notte di Valpurga classica, l'orrore delle streghe, degli spettri paurosi, delle Sfingi e dei Grifoni, delle fiamme, della notte.

Homunculus conosce nel modo più puro: senza venir turbato dal peso della materia e dall'ambiguità dell'esperienza. Tutto è al tempo stesso intelligibile ed estraneo alla sua libera, ironica, disincantata visione. Le pareti di cristallo che lo separano dalla realtà gli consentono una cognizione senza comprensione, nel senso patico del termine.

In un certo senso Homunculs rappresenta l'umanità bonificata dall'inconscio, dalla memoria, dalla materialità delle pulsioni, dai turbamenti delle emozioni, dalla caoticità del processo primario. E' il soggetto non psicoanalitico per eccellenza. Ma proprio per questo è soltanto la divertente caricatura dell'umano, ciò che l'umanità potrebbe divenire una volta che si fosse compiuto quel processo che Max Weber definisce di progressiva razionalizzazione e intellettualizzazione dell'uomo, di disincanto nel suo rapporto con la natura.

Faust ha rischiato, scendendo sino alle Madri, quanto vi è da rischiare, per cui non gli rimane più nulla da vincere. Il nuovo nato invece, ancora chiuso nella provetta, anela a vivere, ad osare. Ma confonde l'esperienza con la sapienza, la vita con la filosofia. Per strapparlo al suo intellettualismo, Mefistofele lo incita ad affrontare direttamente vita (7847-7848):

Senza sbagliare non ci arrivi, alla ragione.
Se vuoi nascere, nasci di tua mano!

Ma Homunculus , come riconosce Talete "è venuto al mondo solo a metà" (8247-8248) e una mente disincarnata non può accedere alla pienezza dell'esperienza. Ha tuttavia cognizione che esiste una dimensione a lui preclusa: ha 'visto' nei sogni di Faust la meravigliosa unione di Zeus, in forma di cigno, con Leda, da cui nascerà la bellissima Elena ed ha capito quanto gli manca il calore di un corpo vivo, il piacere del possesso, il fremito delle sensazioni, l'ardore delle emozioni.

Prodotto ideale della razionalità illuministica spinta al paradosso, Homunculus anela a contaminarsi con gli umori del romanticismo, secondo quella complementarietà che sarà realizzata da Freud e teorizzata da Thomas Mann.

Da quando gli è apparso evidente che la vita è nel corpo, la sua artificiosa esistenza gli sembra insopportabile e anela entrare nel "carcere" della materia. Ma la materia vivente, al contrario della fiala di cristallo che segna i limiti della sua identità, è instabile, metamorfica, proteiforme, soggetta al deterioramento , votata alla morte.

Tuttavia Goethe non vuole consegnare il figlio, generato dalla sua ultima creatività mitopoietica, alla caducità che contraddistingue ogni essere vivente e mobilita, per sottrarlo al destino mortale che lo attende, tutte le risorse della filosofia della natura, pur consapevole che l'ideale di una conoscenza onnicomprensiva è ormai declinato. Organizza pertanto, intorno a Homunculus, un grandioso teatro mitico e filosofico.

Mentre Anassagora rappresenta la violenza generatrice del fuoco, Talete richiama piuttosto alla calma potenza delle onde. Da una parte l'immediatezza delle eruzioni vulcaniche dall'altra la lenta, progressiva erosione delle acque. Ma la vita, sembra dire Goethe, nasce da forze pacate, da energie miti: quando i pallidi raggi lunari illuminano le onde che si distendono lievemente sulla riva.

Eppure l'armonia della natura non convince più il vecchio umanista che evoca, per contrasto, forze irrazionali e sconosciute, rappresentate sulla scena fantastica dai misteriosi Cabiri, esseri che si autogenerano secondo le più stravaganti metamorfosi. Dèi collocati nei gradini inferiori nella scala degli organismi, essi rappresentano il brulicare infimo e al tempo stesso sublime delle energie generatrici e performatrici della natura.

Goethe preannuncia qui una visione evoluzionistica della natura che oscilla tra un modello gerarchico e piramidale, finalizzato alla perfezione dell'uomo, attribuito a Talete, e un modello aperto e contraddittorio, attribuito a Proteo. Proteo (il dio della metamorfica mutevolezza dei fenomeni naturali) propone a Homunculus per acquisire un corpo di immergersi nel mare: "dapprima si inizia dal piccolo - dice - ...poi si cresce poco a poco e ci si forma a compiti più alti" (8260-8264). Ma è proprio così? Il progresso porta soltanto dalle forme rudimentali a quelle compiute? Oppure al vertice dell'evoluzione regna la morte come conseguenza inevitabile di ogni processo realizzato: "gli ordini più alti" portano alla conclusione del tempo e "appena sei diventato un uomo, allora è finita per te" (8327-8332). L'aggancio con il successivo pensiero di Freud è evidente. L'idea che lo scopo della vita sia la morte espresso in Al di là del principio di piacere e soprattutto la forma cosmica che assume il pensiero freudiano è probabilmente debitrice alla fantasia goethiana.

Se l'intelletto puro di Homunculus si umanizza, dovrà accettare anche il destino dell'umano, la morte. Poiché la forma compiuta è votata alla distruzione, meglio vivere nel flusso biologico delle onde, nella vita allo stato nascente è il definitivo responso di Proteo. D'altra parte, come sostiene Nereo il dio del mare padre delle Doridi, anche l'amore come tutte le umane passioni è destinato a finire, ciò che non muta è la natura umana, schiava dei propri desideri, sorda agli avvertimenti degli Dèi e agli ammaestramenti dell'esperienza.

Eppure nulla trattiene Homunculus dall'intraprendere il periglioso viaggio iniziatico verso le metamorfosi dell'ominizzazione, sale pertanto sulle spalle di Proteo-delfino e si immerge nella lucente mobilità delle onde. Appena giunge nella baia la più bella della Doridi, Galatea, issata su di una conchiglia trascinata da una schiera di delfini, Homunculus si abbaglia di luce e di suono e, preda di una "imperiosa voglia", si slancia contro il suo cocchio marino. La fiala si schianta e il suo luminoso contenuto si tramuta nel luccichio fosforescente delle onde che si disperde sul mare mentre le sirene elevano un canto all'amore: "E dunque Eros regni, principio di tutto!" (8475).

Goethe sorvola sulll'inizio-fine di Homunculus, lascia al non detto le successive metamorfosi che lo porteranno dal plancton all'umanità, ciò che gli sta a cuore è ribadire la superiorità del tutto sul particolare, l'originaria indistinzione di materia e forma, la potenza vitale dell'amore contro la fredda magia del pensiero, la priorità della maternità sulla paternità. Sembra alla fine che la definizione che, alla domanda "tu chi sei?" Mefistofele dà di se stesso: "Una parte della forza/ che vuole sempre il male e opera sempre il bene" (1336-1337) si sia, dopo tante traversie, pienamente realizzata. Ma Goethe ritiene che l'errore sia la condizione per giungere alla verità.

L'inno con cui si conclude la Notte di Valpurga classica, in cui Goethe ha sparato tutti i fuochi artificiali della sua fantasmagorica fantasia, inneggia con semplicità classica ai quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) che, sintetizzati dall'amore, e non già dall'artificio, danno luogo alla vera vita, quella che sopravvive a se stessa nel tempo eterno della natura.

Abbiamo incontrato, in questo tragitto attraverso il Faust II, tre forme di generatività, comprese tra l'infanticidio di Margherita e il trionfo della Mater Gloriosa, tra la miseria umana e la trascendenza sublime dell'Eterno elemento femminile/ che ci trae verso l'alto" (12110-1211).

Una pertiene al sacro ed è quella delle Grandi Madri da cui si sprigionano le forme del mondo; la seconda , grottescamente rappresentata da Homunculus, è il prodotto di due figure maschili, il diabolico Mefistofele e l'alchimista Wagner; infine la generatività prima e ultima, quella della natura che tutto contiene, è simbolizzata dal mare che accoglie il vivente nel ciclo dell'eterno ritorno.

Ai tempi di Goethe la nascita artificiale era soltanto il ricordo di una fantasia medioevale ma ora, in tempi di biotecnologie, l'Homunculus si è fatto realtà.

Proprio per questo emerge, con particolare cogenza, l'invito di Goethe a ragionare nella dimensione della complessità, della pluridimensionalità del vivente. Il pensiero razionale non basta a comprendere e governare processi procreativi che hanno i tempi brevi della tecnica ma che eludono, come superflui, i lunghi, ciclici ritmi della natura. Freud riprenderà questa riflessione nell'ermetico saggio su Il motivo della scelta degli scrigni dove il tempo della vita, la determinazione delle leggi naturali, l'inesorabilità della morte, in altri termini la verità dell'uomo, è affidato alle metamorfosi del femminile. Una rivelazione che è possibile cogliere, nella molteplicità dei fenomeni, solo attraverso i filtri disvelanti della bellezza e dell'amore.

Come canta Nereo, guardando ammirato "la conchiglia sovrana" di Galatea (8455-8458):

Quel che si ama splende tra la folla
e per quanto lontano
puro scintilla e limpido,
prossimo e sempre vero.




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